Addì , 10 ott. 2017Parabola del figliuol prodigo

 

La parabola del <figliuol prodigo> la troviamo descritta solo nel vangelo di Luca al cap. 15 vv. 11-32; tuttavia è una delle più conosciute lezioni che il Maestro Gesù ci ha lasciato.

Di solito si medita la figura del padre, misericordioso verso il figlio pentito del male causato a se stesso ed al genitore.

La mia attenzione, però, si sofferma sul figlio maggiore. Egli viene descritto come figlio ubbidiente, affezionato, dedito al lavoro e rispettoso delle indicazioni paterne.- In lui vedo la figura del credente : sin da fanciullo docile, cresciuto ubbidiente e laborioso; senza desideri ribelli o di cose peccaminose, per nulla attratto da sensazioni immorali. Insomma è quello che definiremo un bravo figliuolo e un uomo da ottimi principi morali.

Questa è la situazione di credenti cristiani, molto accreditati per la loro condotta nella famiglia e nella società civile. Ma è solo un aspetto esteriore! Essi nel loro animo non praticano il vero amore insegnato da Gesù Cristo; anche se conoscono molto bene la Parola, nel momento di mettere in pratica la “misericordia” cristiana, manifestano la loro istintiva natura, non riuscendo ad attuare il “perdono cristiano”.

Leggiamo che il figlio maggiore torna dal lavoro nei campi e, nell’avvicinarsi a casa, sente il rumore dei festeggiamenti iniziati e se ne stupisce. Così chiede ad uno dei domestici il motivo inatteso per cui si festeggia inaspettatamente, ed apprende che il fratello minore è ritornato ed il padre, gioioso, aveva disposta quella festa.

Una persona cristianamente osservante e rinnovata nell’ Amore di Cristo avrebbe dovuto gioire per quel ritorno, ed unirsi alla gioia del padre e della casa tutta per quel ripensamento spontaneo e sofferto. Invece egli “si adirò” e non volle neppure entrare: nel suo perbenismo vedeva solo il momento dell’allontanamento del fratello e la caparbietà di quella decisione. Secondo il “suo” punto di vista il padre avrebbe dovuto scacciarlo per sempre; il sentimento del perdono non deve esistere, ma deve prevalere il “fare” e il “dare”, un amore di ricompensa e non incondizionato.

Ma l’invito di Cristo non è così: Egli ci esorta ad amare senza nulla pretendere, a perdonare senza condizioni e senza giudizio. Cristo non solo lo ha detto ma lo ha anche dimostrato in varie occasioni, fino alla morte fisica, perdonando i suoi crocifissori: (Gesù diceva: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” Lc 23:34). Anche gli apostoli, che formarono ed insegnarono alla nascente Chiesa Cristiana, hanno ben chiarito questo principio fondamentale del cristiano.  Nel vangelo di Giovanni 3:3 Gesù dice a Nicodemo che è necessario “nascere di nuovo” per entrare nel Regno dei Cieli, cioè abbandonare i comportamenti logici e naturali per assumere quelli spirituali conseguenti all’accettazione della Salvezza che solo Cristo può donare.

“Allora suo padre uscì e lo pregava di entrare” (Luca 15:28). Gesù in questa parabola ci mostra quanta pazienza e quanto amore il padre (figura del Padre Celeste) manifesta anche per questo figlio: non esercita la sua autorità di padre, ma mostra la sua comprensione per questo figlio, così come ha già fatto con l’altro secondogenito; non ha importanza la motivazione, non esprime particolarità o eccezioni: egli esercita il suo grande amore; quello che conta è il “perdono”, la convivenza sotto l’amore paterno, il ravvedimento dai propri errori, l’amore incondizionato tra fratelli e di questi con il padre.

Ma il figlio maggiore è resistente: rivela così anche la sua natura servizievole. Egli sostiene di aver “servito da tanti anni il padre, senza mai trasgredire”: si ritiene al pari di un servo e come tale si aspettava una ricompensa. Riguardo al fratello è roso da invidia perché si era allontanato con l’eredità  paterna  sperperandola in malo modo e per il suo ritorno il padre ha ammazzato il vitello ingrassato. Invece a lui mai un capretto per festeggiare con gli amici.

Il padre, con amorevole pazienza, gli fa notare che lui non è un servo. Lui è “padrone”, è in casa sua e poteva festeggiare come e quanto voleva. Al contrario del fratello minore che aveva fatta una pesante e triste esperienza; perciò era opportuno mettere da parte ogni rancore, perdonare, dimenticare, e festeggiare il ritorno nella “gloria” paterna.

Noi credenti, infatti, non ci rendiamo conto della ricchezza spirituale che abbiamo: corriamo il rischio di confondere la ricchezza spirituale, che ci è stata donata attraverso Cristo, per cercare cose materiali, che vorremmo secondo le nostre esigenze, ed a volte gelosi delle cose ottenute dagli altri.

Presentare a Dio i nostri bisogni è cosa buona ed è giusta, ma dovremmo imparare a premettere l’espressione convinta e sincera “se Dio vuole, faremo… , andremo…”.

La nostra vita, i nostri pensieri, quello che facciamo, deve essere sempre rivolto a Dio, in una comunione profonda e con rendimento di grazie; ricordarci che nulla ci è dovuto, ma tutto ci è stato dato per grazia dal nostro Salvatore Gesù Cristo.

La nostra attenzione deve essere di vivere in armonia con la fratellanza; deve essere un sentimento radicato in noi; il nostro carattere, il nostro modo di pensare deve essere modificato dal concetto carnale a quello spirituale: così possiamo divenire “CRISTIANI DI CRISTO”.

Quello che sosteneva il figlio maggiore della parabola non è sbagliato: è un principio umano giusto e lecito, MA non è la VOLONTA’ di Dio-Padre e del nostro Signore Gesù Cristo. Un principio carnale giusto ci rende buoni davanti agli uomini, ma non ci “santifica” poiché non è la volontà del Santo. Ogni fede, ogni religione ha del buono, ma non conduce alla vita eterna!

Dio non obbliga nessuno ad accettarlo: [Gesù] disse loro “… Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato…” (Mc 16:16).

Or, se accettiamo volontariamente la salvezza in Cristo, dobbiamo manifestare il nostro “credere” in ogni istante della nostra vita; dobbiamo “uscire” dalla nostra mentalità umana, per assumere quella spirituale. Gesù disse a Nicodemo “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio” e poi “… se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio…” (Gv 3:3 e 5).

Dopo il “primitivo zelo” corriamo il rischio di divenire come il figlio maggiore della parabola di cui sopra: brave persone, giuste ed affidabili agli occhi della gente, ma potremmo non essere graditi al Padre, per un comportamento non conforme alla volontà ed all’insegnamento del nostro Salvatore Gesù Cristo. Da quì l’importanza della pienezza dello Spirito Santo promessa dal Cristo: …quando, però, sarà venuto Lui lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose avvenire. …prenderà del mio e ve lo annuncerà. (Gv 16:13-15).

In conclusione: se abbiamo ritenuto opportuno accettare Cristo, tale accettazione deve essere costante e continua nella nostra vita, trasformandola secondo l’insegnamento del nostro Maestro Gesù, con la guida dello Spirito Santo: Solo così saremo dei VERI “cristiani di Cristo” e non dei “religiosi”, ricordandoci che <nessuna> religione porta in Paradiso, ma Gesù disse: Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv 14:6).

Desidero chiudere con le parole dell’apostolo Paolo, che nella 2^ epistola ai Corinti al cap. 13 v. 13 dice: La grazia del Signore Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti (noi)

 AMEN !

Enrico De Sortis